Giramondo per scelta, ma fortemente legato alla sua terra di origine. Ed entusiasta di quella nuova. Quell’America dove ha bussato in cerca di opportunità e che ha spalancato le proprie porte alla sua voglia di impegnarsi e mettersi in gioco. Riccardo Candeago, ventotto anni ancora da compiere, è uno dei tanti talenti made in Belluno che la nostra provincia ha esportato all’estero. Un giovane con la valigia, protagonista di quel processo ormai strutturale di partenze che se da un lato non può che renderci orgogliosi, dall’altro lascia un po’ di amaro in bocca perché evidenzia ancora una volta la nostra incapacità di trattenere risorse fondamentali per il progresso del Paese.
Riccardo, puoi raccontarci il tuo percorso di studi e formazione fino a oggi?
Durante il liceo ho passato un anno in Québec con l’associazione AFS Intercultura, dopodiché ho iniziato l’università a Trento, dove ho ottenuto la laurea triennale in ingegneria per l’ambiente e il territorio e ho anche trascorso un anno a Granada, in Andalusia, con il progetto Erasmus. Completata la triennale, ho iniziato la laurea magistrale in Materials and Production Engineering, sempre a Trento. Durante la magistrale ho potuto partecipare al progetto di doppia laurea con la Technische Universität München, quindi sono stato quasi due anni a Monaco di Baviera, dove ho ottenuto una laurea magistrale in ingegneria meccanica. Nel corso degli studi a Monaco, ho avuto la possibilità di lavorare per un gruppo di ricerca come “HiWi” (gli studenti possono lavorare part-time per i professori o dottorandi), e grazie alle loro numerose collaborazioni internazionali ho avuto la fortuna di svolgere la mia tesi con il professor Su, nel dipartimento di ingegneria chimica e biomolecolare della University of Illinois a Urbana-Champaign, negli USA. Dopo alcuni mesi di lavoro in laboratorio, il professor Su mi ha suggerito di candidarmi al bando di dottorato dell’Università, volendomi nel suo gruppo.
Attualmente cosa stai studiando e di cosa ti stai occupando nello specifico?
Sono a metà del mio primo anno di dottorato in ingegneria chimica e biomolecolare alla University of Illinois. Il dottorato negli USA dura in media cinque, sei anni. Mi occupo dello sviluppo di nuove tecniche elettrochimiche per separazioni, a scopo di bonifica ambientale o per l’intensificazione di processi industriali. Per esempio, a ottobre abbiamo pubblicato un articolo riguardo a una nuova tecnica per rimuovere il mercurio dall’acqua, anche se presente a bassissime concentrazioni.
Da quanto tempo vivi negli Stati Uniti e perché hai scelto di trasferirtici?
Sono arrivato negli USA nell’estate 2019, e ho svolto la mia tesi fino a febbraio 2020. Sono tornato in Italia appena in tempo per laurearmi (prima che la pandemia bloccasse tutto), e poi sono ripartito per gli Stati Uniti a fine luglio 2020 per iniziare il dottorato. Ho deciso di trasferirmi perché le grandi università americane offrono opportunità incredibili per la ricerca e la carriera. Questo è dovuto sia ai budget enormi (quello della mia università supera i due miliardi di dollari all’anno) che a una mentalità molto aperta, coraggiosa ed ottimista, dove gli studenti e i dottorandi sono visti come risorse e valorizzati moltissimo. Per esempio, il professor Su, dopo aver visto la mia passione e impegno per la ricerca durante la tesi, mi ha ben presto offerto una posizione di dottorato, mentre nelle altre università in cui ho studiato nessuno si è fatto avanti per offrirmi una collaborazione come PhD. Un altro fondamentale motivo per cui ho deciso di spostarmi negli USA è la mia ragazza, americana, che ho conosciuto sei anni fa e con cui convivo felicemente.
Come è stato l’impatto con la nuova realtà? Che ambiente hai trovato?
Il mio primo impatto è arrivato subito, addirittura quando ero ancora in Europa. Appena salito in aereo, la coppia di americani seduta a fianco a me ha iniziato subito un classico “small talk”: mi hanno raccontato del loro viaggio in Italia, parlando del più e del meno. Devo dire che dopo quasi due anni in Germania è stato uno shock. Ho scoperto che gli Stati Uniti sono un Paese immenso, molto più vario di quanto immaginavo, sia geograficamente che dal punto di vista culturale. Per esempio, se uno nasce e cresce in una zona rurale del Midwest, avrà poco o niente in comune con chi nasce e cresce in California o a New York. Visti da lontano, gli USA sembrano molto uniformi e stereotipati, ma visti da vicino si resta affascinati da come persone provenienti da tutto il mondo, con storie e tradizioni così diverse, possano coesistere in un unico luogo. Un esempio è il mio gruppo di ricerca: il mio professore è cinese-brasiliano-canadese, molti miei colleghi sono della Corea del Sud, e anche gli americani vengono da zone molto diverse (California, Georgia, Puerto Rico).
Com’è la vita negli States?
Vivo in una città di medie dimensioni (circa 130mila abitanti), e la mia impressione è che l’urbanistica ruota attorno al concetto di comodità e praticità. Non c’è quasi mai traffico, e si vede che l’elemento più importante è la facile accessibilità con la macchina. La cosa più diversa, forse, è che non c’è un vero e proprio centro storico, cosa che davo per scontata in Europa e che secondo me “definisce” una città. Comunque c’è molto verde, i parchi sono tenuti benissimo, i servizi funzionano (poste, biblioteca, ecc.), c’è un lago con un bel bosco non distante da dove risiedo, e una cosa che apprezzo molto è l’attenzione al cliente, che qui è assolutamente la priorità. In generale, negli Stati Uniti le tasse sul reddito sono molto basse (al 10-15% per farsi un’idea), gli stipendi molto alti, e la maggior parte degli orari di lavoro è ragionevole. A livello accademico, stupisce l’offerta e la varietà di corsi e opportunità. La mia università conta più di 50mila studenti, e nonostante le notevoli dimensioni, tutti i professori che ho avuto fino ad ora sono stati davvero disponibili e alla mano, sinceramente entusiasti di aiutare quando vedono uno studente che dimostra interesse.
Quali sono le principali differenze con l’Italia?
Vista da qui, l’Italia è un Paese piccolo, sempre “in ritardo”, con un enorme potenziale di idee e risorse, ma che purtroppo non vuole rischiare e finalmente investire sui giovani, condannandosi così ad arrivare sempre agli ultimi posti e a contare poco a livello globale. Gli Stati Uniti, invece, sono un Paese giovane, grintoso, ricco di opportunità, dove si investe e si guarda al futuro in modo positivo, ma anche complesso e pieno di problemi mai risolti. Per citarne qualcuno, la questione razziale, la spaccatura fra repubblicani e democratici, il folle costo dell’assistenza sanitaria per i non assicurati, il problema delle armi. A livello accademico, la differenza è abissale, innanzitutto in termini di quanto si investe in ricerca rispetto all’Italia, e poi a livello di mentalità. Qui una laurea o un PhD hanno molto valore e sono visti dai giovani come una grande opportunità per realizzare i propri obiettivi, mentre in Italia dipende: a volte è così, a volte purtroppo conta di più chi conosci rispetto a quanto ti sei impegnato. L’idea di andare “fuori corso” non ha molto spazio qui, e i ritmi di lavoro/studio come dottorando sono certamente molto impegnativi, a dir poco. Viene richiesto moltissimo, ma la ricompensa è alta e l’impegno viene sempre riconosciuto e valorizzato.
E per quanto riguarda l’emergenza sanitaria, come stanno andando le cose lì?
Ho la fortuna di essere in un’università dove tutti gli studenti, i professori e gli impiegati vengono testati almeno due volte a settimana per il Covid-19. Dei ricercatori della mia università hanno sviluppato un test PCR basato sull’analisi della saliva, facendo dai 10mila ai 17mila test al giorno. Al momento, il totale dei test effettuati ha già superato il milione. Comunque la situazione nel resto del Paese è drammatica, e spero – come tutti – che la campagna vaccinale acceleri esponenzialmente con la nuova amministrazione.
Per studio sei stato anche in Germania e Spagna. Puoi tracciare un bilancio di queste esperienze e delle principali differenze che hai riscontrato rispetto al nostro Paese?
Devo dire che l’ambiente universitario è unico, perché ti fa sentire a casa ovunque tu sia nel mondo. Ho incontrato persone incredibili lungo il mio percorso, che hanno contribuito a plasmare il mio modo di pensare e hanno espanso i miei orizzonti. Mi sono trovato bene a Granada. L’ambiente accademico spagnolo è molto simile a quello italiano, e la Spagna e l’Italia sono molto simili per vari aspetti. Monaco di Baviera, invece, è stata la mia prima grande città e università, e il salto in termini di ritmi di studio e aspettative è stato grande. La Technische Universität München mi ha forgiato, mi ha dato una marcia in più attraverso un mix di ricerca, esami e progetti. È un’università che ha stretti legami all’estero, con l’industria e altre realtà accademiche. L’offerta di corsi e materie è vasta e i professori sono estremamente preparati; forse l’aspetto che più sottolineano e valorizzano è la capacità di lavorare in modo indipendente sia nello studio che nella ricerca.
Che legami mantieni con il Bellunese e con il tuo paese di origine?
I miei genitori sono bellunesi e sono cresciuto a San Vito di Cadore. Ho sempre avuto un forte legame con il mio territorio, con le mie montagne, e credo che in qualche modo crescere in montagna ti obblighi e ti abitui a faticare un po’ di più degli altri. Trovo interessante come i miei bisnonni materni abbiano passato alcuni anni a lavorare nel New Jersey o nel Connecticut, ormai più di un secolo fa, per poi tornare fra le loro Dolomiti; mi chiedo cosa avranno pensato dell’America, come passavano le giornate. Poi mi stupisco del coraggio che avevano: partire senza conoscere l’inglese, con un’educazione limitata e poche possibilità di comunicare con i parenti a casa, ma ottimisti di trovare condizioni migliori.
Che consiglio ti senti di dare ai giovani bellunesi?
Il mio consiglio è che da giovani bisogna avere il coraggio di partire, di andare all’estero, mettersi alla prova, imparare almeno l’inglese e vedere, essere curiosi con tutto. È importante lasciarsi spazio anche per sbagliare e per capire qual è la propria strada. Poi una volta visto e imparato, si torna nel Bellunese pieni di nuove idee, grinta e iniziativa per migliorare il nostro magnifico territorio.
