La porta di accesso al cosiddetto “Far East”, per Tommaso Battaglia, comelicense nato nel 1991, è stato lo studio delle lingue.
Laureato in “Lingue, culture e società dell’Asia Orientale” alla Ca’ Foscari di Venezia, tra il 2012 e il 2013 ha vissuto la sua prima esperienza in Cina, dove ha approfondito la conoscenza del Cinese alla Capital Normal University di Pechino.
Un master in Global Management for China, sempre a Ca’ Foscari, lo ha portato nel 2014 a effettuare uno stage nella capitale della Repubblica Popolare.
Rientrato in Italia, ha iniziato a lavorare come Export Area Manager per l’Asia e il Pacifico, trasferendosi nel 2015 a Hong Kong, dove nel 2022 è diventato Permanent Resident. A guidarlo nel percorso verso l’Estremo Oriente una scelta pragmatica: «Finito il liceo a Belluno non sapevo bene cosa volevo fare della mia vita, però desideravo sicuramente andarmene dall’Italia. La facoltà di Lingue, nella mia idea, era quella che mi avrebbe permesso di mettere in pratica questa convinzione. Ero fortemente orientato sul Giapponese, lingua – e cultura – che ho sempre amato. Mentre andavo a iscrivermi all’università, però, ho incontrato una ragazza che mi ha detto: “Sei sicuro che Giapponese sia la scelta giusta per il futuro?”. All’epoca, 2010, l’economia del Giappone era in difficoltà. Il suo suggerimento è stato quello di provare il Cinese, dato che l’economia della Cina era in ascesa e lo studio di questa lingua avrebbe potuto offrirmi molte più opportunità lavorative. E questo è il motivo per cui ho iniziato a studiare Cinese».
Una lingua non semplice da apprendere. Quali sono state le principali difficoltà?
Dopo tre anni a Ca’ Foscari la mia preparazione era davvero molto buona, ma mi mancava la possibilità di parlare il Cinese in situazioni quotidiane. La prima volta che sono andato a Pechino nel 2012 ho vissuto uno shock culturale terribile, non mi aspettavo assolutamente ciò di cui poi ho fatto esperienza. Era una Pechino che aveva già ospitato le Olimpiadi, quindi molto rinnovata ma comunque più vera e tradizionale di quella che c’è ora. Ebbene, all’epoca non riuscivo a dire una parola, mi è risultato molto difficile comunicare, perché la popolazione locale non parla il Cinese che si studia all’università. Questa situazione, se non hai la capacità di adattarti, può essere molto traumatica all’inizio.
A livello di cultura, di società, di vita quotidiana, si avverte la differenza con l’Occidente?
Le differenze sono abissali. Dal momento stesso in cui ho messo piede fuori dall’aereo ero già arrivato in un mondo diverso. La Cina è un Paese di quasi due miliardi di abitanti, dove ognuno deve avere un’occupazione e quindi già all’aeroporto si trova gente che fa i lavori più disparati. I posti sono estremamente affollati e gli spazi enormi. Direi che si vive un caos ordinato. Altro aspetto rilevante: il cibo. Io sono un po’ difficile e non mi sono mai abituato pienamente al cibo asiatico, sebbene viva qui da oltre dieci anni. Adattarsi al cibo locale per me è stato un dramma, soprattutto la prima volta che sono arrivato in Cina, anche se un po’ alla volta ho superato questo limite mentale. La terza grande differenza è nell’interazione con le altre persone. È molto difficile relazionarsi con i cinesi. Sono molto più diffidenti, ci vedono sempre come stranieri. Bisogna farsi accettare ed entrare nelle loro corde.
Hai studiato a Venezia e a Pechino. Che differenze hai riscontrato?
A Pechino ho seguito un corso intensivo di Cinese. Direi che è molto diverso il rapporto tra insegnante e studenti. Le classi sono molto più piccole, a Pechino eravamo in venti, mentre a Venezia un centinaio, e quindi il rapporto con i docenti è più stretto. Anche il metodo di studio è estremamente diverso, ma questo dipende dalla lingua stessa: per padroneggiare il Cinese serve tanto lavoro mnemonico. Addirittura, ci insegnavano frasi da ripetere a memoria, perché poi da quelle è possibile ricostruirsi discorsi di vita quotidiana.
Parlando di lavoro, di cosa ti occupi esattamente?
Sono arrivato a Hong Kong nel 2015 con il mio primo lavoro per la PreGel, azienda di Reggio Emilia leader mondiale nei semilavorati per gelateria e pasticceria. La sua base in Asia è proprio a Hong Kong, dove sono stato trasferito dopo sei mesi in Italia. Il primo approccio mi ha visto inserito in un piccolo ufficio in cui operavamo io e tre dipendenti locali. All’inizio sono stato visto come quello che arriva dalla sede centrale, un po’ la spia di turno, nonostante fossi un 24enne alla sua prima esperienza di lavoro. Sono rimasto in PreGel per sette anni, passando da referente per il mercato cinese a referente per tutto il mercato del Nord Asia. Nel 2021, avendo bisogno di cambiare aria e di trovare qualcosa di più stimolante in un periodo duro come quello della pandemia, sono entrato a lavorare per il più antico produttore di aceto balsamico del mondo, Acetaia Giusti, con il ruolo di area manager per tutta la zona Asia-Pacifico, che va dalla Mongolia alla Nuova Zelanda. Questo lavoro mi ha permesso di uscire dalla bolla dei Paesi del Nord Asia, di viaggiare e conoscere nuovi mercati, di interfacciarmi con realtà diverse da quelle che avevo conosciuto per sette anni, interagendo con le culture dei luoghi che visito in modo molto profondo.
Pregi e difetti di Hong Kong?
Dopo più di sette anni, la ritengo la mia seconda casa. È una città sempre vibrante, internazionale. Sembrerà un cliché ma è vero che rappresenta l’incontro tra Oriente e Occidente, un luogo in cui trovare il meglio dell’Asia e il meglio dell’Occidente, ed è il motivo per cui ho scelto di viverci. È accogliente, ti permette di conoscere persone da tutto il mondo. L’ambiente, tra montagna e mare, è ottimo, con spiagge splendide e vette molto belle, magari non come le Dolomiti, ma interessanti. Ho sempre apprezzato, inoltre, la possibilità di viaggiare facilmente in tutta l’area, una cosa che si è un po’ fermata con il Covid, ma che ora sta ripartendo.
Cosa ti manca dell’Italia? C’è la possibilità di un rientro?
Fra qualche anno mi rivedo, se non in Italia, in Europa, dove mi piacerebbe portare l’esperienza acquisita in Asia. Al momento, però, voglio restare qui. Sono diventato da qualche tempo permanent resident, un bel traguardo, e non me la sento di andarmene proprio ora che mi è stata offerta questa opportunità. Sicuramente non mi precludo l’idea di tornare in Italia, il Paese da cui provengo, che amo e che mi manca soprattutto nelle sue piccole cose che fanno casa.
Cosa manca all’Italia per riuscire a non farsi sfuggire – o a richiamare – i propri talenti?
Manca il dinamismo. L’Italia è un Paese con la muffa. So che è un concetto forte, ma l’Italia è un Paese bellissimo, con tutte le carte in regola per fare bene, però purtroppo ha un sistema farraginoso, che porta ad avere tutto in modo lento. Ad Hong Kong tutto è più rapido e più semplice anche se, per contro, per certi aspetti l’Italia è più flessibile. Qui a volte sono troppo rigidi e questa cosa può dare fastidio.