Ventiseienne bellunese (in effetti Castionese) di origine tedesca da parte paterna e zoldana da parte materna, vivo da tre anni a Bruxelles dove attualmente lavoro. Dopo la laurea triennale in Studi Europei, conseguita a Maastricht (Olanda), e un master gestionale in progettazione frequentato tra Milano e Glasgow (Scozia), mi sono trasferita in Belgio nel 2019 per uno stage presso un’agenzia della Commissione Europea. In seguito, sempre a Bruxelles, ho lavorato per due anni in una società di consulenza, dove ho contribuito a vari progetti di ricerca e assistenza tecnica per diversi direttorati della Commissione Europea. Ho recentemente iniziato a lavorare per un’istituzione finanziaria belga orientata alla cooperazione e allo sviluppo, dove mi occupo della gestione di un fondo di sussidi per investimenti nel settore privato a favore di Paesi del sud del mondo.
Cosa ti ha spinto a fare le valigie e trasferirti all’estero?
Fin da bambina sono stata abituata dal mio contesto familiare a sviluppare la curiosità e ad approfondire la mia voglia di conoscenza attraverso la lettura, lo studio e i viaggi. Grazie a vari periodi all’estero fin dalla scuola media, ad esempio in Germania e negli Stati Uniti, mi sono presto inserita in diverse realtà sociali e culturali tramite incontri ed esperienze dirette, e questo è stato per me lo strumento più forte per perseguire il mio grande desiderio di conoscenza. Il fattore che ha determinato la necessità di approfondire è stato probabilmente il bisogno di connettere le mie due identità: quella della realtà territoriale della mia infanzia e adolescenza e quella della mia storia familiare. Per questo ho voluto comprendere meglio il nostro continente e quindi partecipare e contribuire al ruolo che l’Europa, nella sua definizione politica e culturale di oggi, svolge verso i suoi cittadini così come verso il resto del mondo. Per la verità al tempo non ho considerato la mia scelta di partire un vero “trasferimento”, così come ancora adesso faccio fatica a usare tale definizione. Oggi molti giovani italiani, perlomeno veneti, non partono per necessità, come è stato per la migrazione dei nostri nonni e bisnonni. Partono senz’altro per svariate ragioni, ma come figli di una società globalizzata, che ha in qualche modo allargato il nostro senso di possibilità e, di conseguenza, anche di dovere verso di essa. Sentire una chiamata altrove può essere dovuto alla necessità di dare senso a sé stessi svolgendo la propria opera come cittadini globali. Dopo quasi dieci anni di vita all’estero mi rendo conto che per me è stato così.
Avresti voglia di rientrare a Belluno?
Come molti bellunesi mi sento molto vicina alle mie origini e in particolare al luogo che mi ha formata e cresciuta, più che all’identità nazionale o regionale. Rientro spesso a Belluno per le festività o lavorando da remoto; per me è sempre stato e sempre sarà un enorme piacere farlo. Conosco ragazzi della mia età, o più giovani, che non rientrano facilmente a casa perché rifugiati di guerra o politici, perché un viaggio costa due stipendi e ci vogliono due giorni di viaggio, o magari perché hanno rimosso dentro di loro quello che hanno lasciato; rispetto a questi mi sento molto fortunata, non solo di poter rientrare a casa con un volo Ryanair prenotato il giorno prima, ma per poter rientrare in un luogo splendido quanto la nostra provincia. Spesso, a chi me lo chiede, dico che nel momento in cui vorrò farmi una famiglia mi piacerebbe poter dare ai miei figli la stessa splendida infanzia che ho avuto io, crescendoli vicino ai miei cari e alle mie montagne, nell’unico luogo che, anche dopo molti anni, ancora chiamo casa. Più passa il tempo più mi rendo però conto della difficoltà in cui mi troverei ad abbandonare il contesto di vita a cui mi sono abituata da quando ho lasciato Belluno: un contesto tipico delle grandi città del nord Europa, caratterizzato dall’internazionalità, dalla diversità socio-culturale e dal plurilinguismo, da una maggiore e migliore offerta professionale, da cui risultano sia una molteplicità di stimoli e iniziative, sia evidenti vantaggi e comfort. Un contesto che, in tutta la sua positività e negatività, è molto diverso da quello della realtà bellunese e per gran parte anche italiana e veneta. Tuttavia, sono cosciente che in ogni fase della vita le priorità cambiano, e che solo il futuro mi dirà se e quando sarà tempo di rientrare.
Cosa ti manca di più e cosa di meno di Belluno?
Di Belluno mi manca prima di tutto la natura: ormai un cliché, senz’altro le montagne, con la loro brezza, tranquillità e silenzi; ma anche le valli, i boschi e i campi, che sempre sentirò diversi da quelli di qualsiasi altro luogo. Inoltre mi manca quello di cui sempre più spesso sento il bisogno vivendo in una grande città: la sobrietà e semplicità del vivere di paese, con la sua lentezza, i limiti di scelta, il maggiore contatto con l’ambiente naturale e umano circostante, e infine il fatto di non sentirsi sempre per quanto un po’ “straniero”. A volte, mi manca anche la sensazione di vivere in una piccola “bolla felice”, che solo attraverso media e giornali è esposta alla parte cruda del mondo, che è invece molto più evidente in una città caratterizzata da molte contraddizioni come quella in cui vivo. Penso soprattutto alle quotidiane e visibili realtà della povertà e dell’emarginazione, alla diseguaglianza sociale e alla migrazione, oltre che al forte ruolo politico della città. Tra ciò che non mi manca di Belluno è l’essere dipendente dall’auto nella quotidianità: nonostante i sù e giù delle strade di Bruxelles, è molto più semplice e comodo qui spostarsi in bici o a piedi, e il servizio pubblico è molto ben servito sia in termini di orari che di collegamenti.
Cosa dovrebbero fare la provincia di Belluno, il Veneto e l’Italia per far rientrare i “cervelli in fuga” o per essere attrattivi anche per altre persone che non siano prettamente italiane?
Sebbene politiche quali le agevolazioni fiscali a sostegno del “rientro dei cervelli” recentemente messe in atto dallo Stato siano un primo modo per incentivare un lavoratore a rientrare in Italia dopo anni all’estero, credo che il nostro paese necessiti di un cambiamento sistematico per evitare che un giovane scelga di trasferirsi all’estero con una notevole possibilità di poi restarci. Sicuramente Italia e Veneto dovrebbero investire molto di più sui giovani, innanzitutto offrendo stipendi e condizioni contrattuali più dignitose: trovo infatti che i neolaureati siano tra coloro che soffrono di più per le difficoltà economiche nel nostro Paese, e inserirli nel mondo del lavoro, soprattutto quando altamente qualificati, attraverso stage non retribuiti, contratti di apprendistato pluriennali e lavori precari, non è certo il modo per incentivarli a cercare lavoro in Italia. Se spesso questi stessi motivi spingono i giovani ad intraprendere già il loro percorso di studi all’estero, anche dal punto di vista formativo il nostro Paese ha molte debolezze, che fanno sì che non attragga “cervelli esteri” quanto altri paesi europei. In primis, sono dell’opinione che la scuola dovrebbe superare l’attuale sistema di formazione ancora parzialmente tradizionale e legato ad esempio alle lezioni frontali, o alla memorizzazione. Sull’esempio di molti paesi del nord Europa, la scuola italiana dovrebbe stimolare maggiormente lo studente alla discussione, a coltivare la propria creatività e criticità, ad esempio tramite sessioni di gruppo e lezioni pratiche; inoltre, potrebbe inserire nei curricula l’apprendimento di maggiori strumenti e processi utili per il mondo del lavoro. Infine sono convinta che il sistema educativo italiano debba investire molto di più su un migliore insegnamento delle lingue, spesso inadeguato anche in istituti specializzati come ad esempio i licei linguistici, e ad ora quasi esclusivamente dipendente dalla validità dell’insegnante. Infatti, un forte limite dell’Italia è la poca internazionalizzazione, che promossa possa creare un contesto che facilita l’inclusione dello straniero, e che renda dunque l’essere un lavoratore proveniente dall’estero un fenomeno più normalizzato, anche in città più piccole come Belluno.
Dove deve investire secondo te la provincia di Belluno per la sua crescita economica e sociale?
Si sa che Belluno, nei suoi limiti di piccola città, ha molto da offrire dal punto di vista lavorativo in settori quali turismo e produzione industriale. Se è inevitabile per una città come la nostra perdere dei talenti, fare il possibile per mitigare le mancanze dello Stato in termini di formazione e offerta di lavoro sarebbe già un grande primo passo per trattenere e attrarre competenze sul territorio. Inoltre, soprattutto in un contesto sociale marcato sia da una crescente sensibilizzazione verso l’ambiente e il clima, sia dalle trasformazioni legate al Covid-19, poche città italiane possono vantare il benessere e la qualità di vita di Belluno. Il turista che oggi può scegliere il Bellunese sempre di più valorizza il mangiare sano, le tradizioni e la cultura locale, ma anche il trasporto efficiente e sostenibile. Se dunque è urgente per la provincia investire sull’ormai quasi inevitabilmente citato turismo “sostenibile”, tale sostenibilità dovrebbe essere definita sia in base alle trasformazioni che definiscono la nostra epoca, sia in base a fattori che rendono un soggiorno a Belluno al calibro delle diverse tipologie di turista moderno: un turista che viaggia solo, in gruppo o in famiglia; che si sposta in macchina o in treno, che alloggia in un hotel a 4 stelle o in un ostello della gioventù. Mi piacerebbe che il PNRR e le Olimpiadi del 2026 portassero a Belluno investimenti sul trasporto stradale e ferroviario, su strutture e iniziative adeguate a famiglie così come a giovani e ai soli travellers, in modo che tale turismo fosse sostenibile, inclusivo e accessibile.